All’inizio del 2008 erano tra i 3,8 e i 4 milioni gli immigrati regolari in Italia, con una incidenza del 6,7% sul totale della popolazione, leggermente al di sopra della media Ue. È la stima fatta dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Migrantes nel XVIII dossier statistico presentato a Roma (qui il .pdf della scheda di presentazione): cifre che sono lievemente superiori a quelle stimate dall’Istat, secondo il quale i cittadini stranieri residenti all’inizio del 2008 erano quasi 3,433 milioni, comunitari inclusi. La prima collettività, raddoppiata in due anni, è quella romena con 625.000 residenti e, secondo la stima del Dossier, quasi 1 milione di presenze regolari, seguita da quella albanese (402.000) e marocchina (366.000); un poco al di sopra e un poco al di sotto delle 150 mila unità si collocano, rispettivamente, le collettività cinese e ucraina. A guadagnare anche in termini percentuali sono stati gli europei (52,0%), mentre gli africani mantengono le posizioni raggiunte (23,2%) e gli asiatici (16,1%) e gli americani (8,6%) perdono almeno un punto percentuale. Tradotto: sono immigrati una persona ogni 15 residenti, una ogni 15 studenti, quasi una ogni 10 lavoratori occupati; inoltre, in un decimo dei matrimoni celebrati in Italia, è coinvolto un partner straniero, così come un decimo delle nuove nascite va attribuito a entrambi i genitori stranieri. In cifre, spiega il rapporto, si parla di quasi 800.000 minori, più di 600.000 studenti, più di 450.000 persone nate da noi, più di 300.000 diventate cittadini italiani dal 1996, più di 150.000 imprenditori ed il doppio se si tiene conto anche dei soci e delle altre cariche societarie. Il dossier analizza anche l’andamento dei flussi nell’ultimo triennio: nel periodo 2005-2007 sono state presentate circa 1,5 milioni di domande di assunzione di lavoratori stranieri da parte delle aziende e delle famiglie italiane. Per la precisione 251.000 nel 2005, 520.000 nel 2006 e 741.000 nel 2007, con una incidenza, rispetto alla popolazione straniera già residente, prima del 10%, poi del 20% e nel 2007 del 25%, ma addirittura del 33% rispetto ai lavoratori stranieri già occupati. I flussi registrati nell’ultimo decennio, spiega la Caritas, sono tra i più alti nella storia d’Italia, paragonabili, se non superiori, al consistente esodo verso l’estero degli italiani nel secondo dopoguerra. L`immigrazione è dunque “sostanzialmente di segno positivo e concorre fortemente a porre rimedio alle lacune del nostro paese”, che sta diventando sempre più vecchio. Gli immigrati sono una popolazione giovane: l’80% ha meno di 45 anni, mentre sono molto pochi quelli che hanno superato i 55 anni. Inoltre, il tasso di fecondità delle donne straniere è in grado di assicurare il ricambio della popolazione (2,51 figli per donna), a differenza di quanto avviene tra le italiane (1,26 figli in media). Nel 2007, poiché non è stata integrata la quota iniziale di 170.000 nuovi ingressi, si può ipotizzare tenuto conto delle domande presentate - spiega il dossier Caritas-Migrantes - la presenza di almeno mezzo milione di persone già insediate in Italia e inserite nel mercato del lavoro nero, e a volte sprovviste di permesso di soggiorno. “A regolamentare i flussi in entrata non potranno essere i Centri di identificazione e di espulsione” sostiene la Caritas “e gli interventi repressivi, ma si richiede il supporto di interventi più organici”. Sempre nel 2007 le acquisizioni di cittadinanza sfiorano le 40.000 unità; le nuove nascite sono 64.000; gli studenti aumentano al ritmo di 70.000 l’anno; i minori tra nuovi nati e venuti dall’estero sono più di 100.000; le nuove assunzioni “ufficiali” sono più di 200.000 l’anno; l’aumento minimale della popolazione immigrata si aggira sulle 350.000 unità. Un’elevata presenza si registra presso le famiglie per l’assistenza (le “Sante badanti a cui Panorama ha dedicato un’approfondita inchiesta), nell’edilizia, nelle fabbriche e in determinati servizi ed è riscontrabile una diffusione crescente anche in altri settori: nei trasporti, nei bar, negli alberghi, negli uffici. E gli immigrati hanno un tasso di attività (73%) di 12 punti più elevato degli italiani e sono creatori di ricchezza: concorrono per il 9% alla creazione del Pil (stima Unioncamere), coprono abbondantemente le spese sostenute per i servizi e l’assistenza con 3,7 miliardi di euro utilizzati come gettito fiscale (stima Dossier). Non solo: crescono anche gli investimenti per l’acquisto della casa: tra gli italiani 8 su 10 sono proprietari di casa, mentre tra gli immigrati lo è solo 1 su 10, ma il divario è in continua diminuzione. Il nostro paese si colloca in Europa tra quelli al vertice per numero di immigrati e la dimensione globale delle grandi città italiane anticipa quello che sarà il futuro nel resto del paese. A Milano l’incidenza degli stranieri è del 14% e 1 ogni 4 è minore (quasi 50.000 su un totale di 200.000), mentre a Roma l’incidenza si attesta sul 10% e l’intera popolazione immigrata raggiunge le 300.000 unità.
"Scommettere sui giovani". Gli Stati Generali dell'Editoria si occupano, quest'anno, delle (scarse) abitudini di lettura dei ragazzi. Con l'aiuto di mio figlio Antonio (1992), costretto a offrirsi volontario, ho preparato un decalogo: "Dieci modi per far odiare i libri a vostro figlio".
1. Regalateglieli per il compleanno. L'adolescente si aspetta la nuova marmitta per il motorino, e voi gli donate la raccolta "I Grandi Classici dell'Avventura". Da quel momento, appena sentirà nominare Stevenson o Salgari, cercherà con gli occhi un inceneritore.
2. Consigliate un libro che vi ha annoiato. Troppi genitori (zii, nonni, amici di famiglia) pensano che la lettura debba essere sofferenza. Molti insegnanti sembrano non capire che alcune opere non sono adatte a un adolescente. Pensosi racconti di Bassani, tomi di Elsa Morante: perfetti per spegnere le giovani fiamme.
3. Consigliate un libro che vi ha divertito. L'umorismo invecchia, come ogni cosa umana. Se uno scoppia a ridere leggendo Plauto, ha fumato cose strane. Ho amato P.G. Wodehouse, da ragazzo. Ma le avventure di una maiale nel castello di Blandings forse hanno fatto il loro tempo. In TV, ogni giorno, passano suini più spassosi.
4. Niente grossi volumi! E chi l'ha detto? Harry Potter poteva esser lungo come un faldone del processo Mills e i ragazzi l'avrebbero letto comunque.
5.Casa pulita! Niente libri e giornali. Le scoperte letterarie sono spesso frutto del caso. Vale anche per un ragazzo di sedici anni. Un libro su un tavolo della cucina è più appetitoso di un libro in biblioteca. Senza serendipity - trovare quello che non si sta cercando - non si va lontano.
6. Bruciate i fumetti! Quelli colti ora li chiamano "romanzi illustrati": stessa roba. Severgnini Jr considera Lupo Alberto un filosofo: ha ragione. Ricordate che non tutti i libri sono adatti ai ragazzi. E nessuno è sacro. I brutti libri si buttano con furore futurista, quelli stimolanti si riempiono di note. Con la matita, se possibile; se non con la biro (pennarello, rossetto). Non dare retta ai feticisti.
7. Fidatevi dei classici E finirete male. Un classico è un libro che dice cose sempre nuove ad ogni generazione: è il caso del "Piccolo Principe" e di "Pinocchio". Il primo però è più new age; il secondo è stato steso da brutte metafore e dalle buone intenzioni di Benigni.
8.Non lasciate pause. Sono gli strumenti veloci e le vite affollate che hanno messo in crisi la lettura. Create momenti e luoghi di pausa. Il bagno, per esempio. Lasciateci libri piluccabili. Un ragazzo potrà leggerli, non visto, e nessuno lo loderà (rovinando tutto).
9. Ignorate i suoi interessi. Se il figlio ama il basket, regalategli le memorie di Mourinho (ne ha? Credevo avesse solo certezze).
10. Fatevi scrupoli. Il ricatto è uno strumento che gli adoloscenti usano e, quindi, capiscono. Vuoi uscire sabato? Cinquanta pagine. Felpa nuova? Cento pagine. Una cultura, e un guardaroba, si costruiscono anche così.
Roberto Saviano è minacciato di morte dalla camorra, per aver denunciato le sue azioni criminali in un libro - "Gomorra" - tradotto e letto in tutto il mondo. E' minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo Paese. Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, "Repubblica", e di tacere. Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. E' un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini. Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
di PAOLA COPPOLA ROMA - Oltre 170mila firme per Roberto Saviano, per proteggerlo dalle minacce, per chiedere allo Stato di sconfiggere la camorra. Perché Saviano è un "problema di democrazia", come recita l'appello dei Nobel. In difesa dell'autore di "Gomorra" si è creata una mobilitazione eccezionale in Italia e all'estero. Hanno firmato l'appello altri Nobel, e tanti intellettuali, politici, scrittori, personaggi dello spettacolo, molti registi, e moltissimi cittadini, classi, associazioni.
"La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda tutti noi, come cittadini", dice l'iniziativa di solidarietà lanciata da Dario Fo, dallo scrittore tedesco Günter Grass e dal turco Orhan Pamuk, da Michail Gorbaciov, dall'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e da Rita Levi Montalcini. A loro si sono aggiunti altri Nobel: lo scrittore portoghese José Saramago, la scrittrice e drammaturga austriaca Elfriede Jelinek, l'attivista nordirlandese Betty Williams, la poetessa polacca Wislawa Szymborska, il leader storico di Solidarnosc, Lech Walesa, e ieri anche l'iraniana Shirin Ebadi, l'argentino Pérez Esquivel e Renato Dulbecco. Anche Medici senza frontiere ha aderito all'appello: "Nel suo lavoro di organizzazione umanitaria in situazioni di conflitto, Msf è testimone di violenze e atrocità in regioni che ricevono scarsa attenzione da parte dell'opinione pubblica. Per poter denunciare tutto questo abbiamo bisogno di giornalisti che, come Roberto, hanno il coraggio di raccontare realtà spesso invisibili di violenza e di chi la subisce", chiarisce l'organizzazione.
Si sono schierati per lo scrittore, minacciato dalla camorra, tanti altri scrittori: da Paul Auster a Ian McEwan fino a Tahar Ben Jelloun, e Abraham Yehoshua e David Grossman, e gli italiani Rosetta Loy, Giancarlo De Cataldo, Francesco Piccolo e Sandro Veronesi. Il mondo dello spettacolo si sta mobilitando per "Gomorra", che è diventato anche un film di Matteo Garrone: registi come Martin Scorsese, Spike Lee, Arthur Penn, Milos Forman, Paul Mazursky, e Ermanno Olmi, Davide Ferrario, Ferzan Ozpetek, Nanni Moretti e Mario Martone hanno aderito all'appello.
Le iniziative in favore dello scrittore continuano a moltiplicarsi in tutto il paese, come le letture pubbliche del suo bestseller, mentre è ancora possibile firmare l'appello sul sito di Repubblica. Passi di "Gomorra" sono stati letti alla Camera, e la solidarietà a Saviano e la proposta di una seduta del consiglio da fare in un paese del casertano hanno scatenato una discussione durante una seduta del Consiglio regionale campano, che a fine giornata ha approvato all'unanimità un ordine del giorno nel quale si esprime vicinanza allo scrittore.
GRAZIE per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà. [...]
In questi giorni di tensioni e scontri sui tagli all'istruzione, la redazione vuole proporvi un discorso del grande giurista fiorentino, tenuto a Roma l'11 febbraio del 1950
Qui di seguito vi riportiamo un discorso di Piero Calamandrei, docente universitario prima, e membro della Conulta Nazionale e dell'Assemblea Costituente poi. L'intervento è datato 11 febbraio del 1950, ma risulta, a nostro parere, ancora oggi molto attuale:
“Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.
Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.”
Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
Il ministro dell'Interno: "E' un simbolo, ma non il simbolo della lotta ai criminali"
E ancora: "Non è da oggi che si combatte la camorra, si fa da anni in silenzio"
NAPOLI - Parole forti, perfino frecciate polemiche, del ministro degli Interni Maroni a Roberto Saviano. "E' un simbolo - dice il ministro - ma non è il simbolo. La lotta alla criminalità organizzata la fanno poliziotti, carabinieri, magistrati, imprenditori che sono in prima linea ma non sulle prime pagine dei giornali".
Il titolare del Viminale è a Napoli, dove a margine della firma di un protocollo per la legalità con gli imprenditori si augura che lo scrittore non lasci l'Italia "perché contribuisce con la sua immagine al contrasto alla crimininalità organizzata", ma anche perchè non ritiene "una buona idea quella di andarsene. Non mi pare ci sia certezza di evitare la vendetta camorristica che non ha confini". Poi Maroni ribadisce: "Non è da oggi che si combatte la camorra, lo si fa da sempre in silenzio. Al di là della risonanza mediatica e della vicenda personale di Saviano la lotta alla criminalità organizzata si fa quotidianamente da parte di tutte le forze dello stato, sempre più con il coinvolgimento dei cittadini".
"Non vorrei ridurre lo Stato nella sua azione - conclude il ministro - a una personificazione".
''Saviano fatti i fatti tuoi'': I ragazzi del Liceo Scientifico di San Cipriano sullo scrittore: "Uno scemo", "poteva stare zitto"
Dibattito in rete sulla democrazia? L’Italia non partecipa
di Salvo Catalano | 10/10/2008 |
Why Democracy? è un grande progetto partecipativo che coinvolge televisioni pubbliche e private di tutto il mondo. Ma da noi nessuno, dalla Rai in giù, ha aderito. Il coordinatore Don Edkins: “Probabilmente il livello della vostra democrazia non è tale da poter parlare di questo tema"
Whydemocracy.net è il più grande evento multimediale organizzato su un tema di attualità, che ha dato avvio a un dibattito globale sul ruolo della democrazia: 18 cortometraggi e 10 film documentari di registi famosi e sconosciuti filmmakers. 43 paesi coinvolti in rappresentanza dei 5 continenti, ma dell’Italia non c’è traccia.
Ecco un esempio dei video.
Don Edkins, regista e produttore sudafricano, fa parte della commissione di Esodoc 2008 conclusosi a Catania in questi giorni. Cerca di spiegare: “La situazione dei film makers italiani è estremamente difficile. Tra le proposte di film che abbiamo visionato ce n’era solo una italiana, ma non ha passato la nostra selezione. D’altra parte abbiamo tentato più di una volta di coinvolgere la Rai in questo progetto, ma invano. L’Italia ha perso una grande occasione. È un argomento che ha bisogno di essere dibattuto ma nel vostro Paese il livello della democrazia non è tale per dare vita ad un confronto maturo”.
Per ovviare all’indifferenza delle tv nazionali, è stato creato il portale www.whydemocracy.it dove i 10 film-documentari provenienti da Cina, Pakistan, Danimarca, Liberia, Egitto, Russia, Bolivia, India, Giappone e Stati Uniti, cuore dell’intero progetto, sono fruibili con sottotitoli in italiano. Si va da ‘Looking for revolution’ (http://www.whydemocracy.net/film/6) che indaga la Bolivia del presidente Evo Morales, tra la nostalgia per la rivoluzione predicata da Che Guevara e il vecchio sistema corrotto e oligarchico, ancora vivo e vegeto, a ‘Iron ladies of Liberia’ (http://www.whydemocracy.net/film/8) viaggio nel sogno democratico di Ellen Johnson-Sirleaf, prima donna a diventare capo di stato di un paese africano, passando per “Please Vote for me” (http://www.whydemocracy.net/film/3). Quest’ultimo, in realtà, è stato trasmesso da Doc3 sulla terza rete Rai quest’estate: un interessantissimo spaccato di vita in una grande città cinese tra i banchi di una scuola con alcuni bambini in gara tra di loro per diventare rappresentanti di classe.
Democrazia è unione e rispetto.
In realtà c’è anche un pizzico di Italia tra i documentari selezionati: è il corto “Interferenze” (http://www.whydemocracy.net/film/22) di Zoe D’Amaro - film maker italiana emigrata ad Amsterdam dove collabora con la compagnia Godmother Films - che racconta l’esperienza della Street tv bolognese ‘Orfeo’.
C'è ancora chi crede di dover imporre la democrazia in nome della libertà.
Ma WhyDemocracy è anche un blog in cui tutti possono proporre contenuti, dare notizie, commentare fatti con l’unico obiettivo comune di vigilare sullo stato della democrazia nel mondo. Per stimolare il dibattito è stato chiesto a numerosi leaders politici e religiosi, atleti dello sport (tra cui Pelè), artisti, scrittori, ma anche all’uomo della strada (un tassista, un gruppo di teenagers inglesi) di rispondere a dieci domande, tra cui: chi voteresti come ‘presidente della terra’? E’ vero che le donne sono più democratiche degli uomini? Dio è democratico? La democrazia è un bene per tutti?
E quando ce l'abbiamo, non pensiamo che si possa perdere...
Le risposte sono state raccolte e assemblate in diversi video (http://www.whydemocracy.net/house/questions). Non cercate un italiano: ancora una volta del nostro paese neanche l'ombra.
Vent’anni fa la minaccia erano il burocratese odiato da Italo Calvino e l’anglitaliano che storpiava tutto. Ora l’allarme è più sottile: scrittori che inseguono il parlato e un dialogo fatto di consonanti, in formato telefonino
Se permettete inizio questa inchiesta sulla lingua italiana 2008 (come sta e dove va) dal mio nuovo telefonino che, quando suona la sveglia, mi propone due alternative: “Stop” o “Posponi”. La prima volta sono rimasto confuso o, come direbbe il commissario Montalbano (mia massima autorità linguistica), imparpagliato. “Posponi”? Poi ho capito che si trattava della seconda persona singolare del presente indicativo di posporre (mettere dopo, differire, posticipare): io pospongo, tu posponi, egli pospone... In redazione, facendomi le raccomandazioni di rito prima di cominciare l’inchiesta, mi avevano detto: «Stai attento ai telefonini, agli sms, è lì che sta nascendo l’italiano del futuro, è lì che scoprirai qualcosa di nuovo». E, invece, il “posponi” del mio telefonino mi ha riportato al passato, a vent’anni fa esatti quando, facendo un’altra inchiesta sulla lingua italiana, avevo scoperto che l’italiano correva due pericoli. Il primo era il burocratese, la lingua con cui lo Stato (o chi ne fa le veci) si rivolge ai cittadini. Il burocratese per me era simboleggiato da un cartello che avevo letto alla stazione di Firenze: “Questo sportello rimane impresenziato dalle 13 alle 15”. Ma non era più semplice dire che lo sportello rimaneva chiuso? No, il burocratese si spezza ma non si spiega. Aggiungo, anche se non c’entra nulla (apparentemente), che lo sportello in questione era risultato impresenziato anche a mezzogiorno e mezza. Il secondo pericolo per l’italiano del 1988 era racchiuso nelle due parole dell’insegna di un ottico milanese (“Occhial House”) e sintetizzava maccheronicamente il difficile rapporto con l’inglese. Vuoi vedere che, tra “posponi” e “Occhial House” (vent’anni dopo, l’insegna lampeggia ancora su viale Abruzzi a Milano), i problemi dell’italiano sono rimasti gli stessi di allora?
E IL BUROCRATESE NON MUORE
Ho sottoposto (e non posposto) i miei timori a due tra le massime autorità della linguistica italiana: i professori Gianluigi Beccaria e Luca Serianni. Beccaria, «il professore di italiano che tutti avremmo voluto avere», come dice Aldo Grasso, ha appena ripubblicato da Garzanti il suo indispensabile Per difesa e per amore (La lingua italiana oggi). Per quanto riguarda il burocratese il professore scuote la testa. La battaglia contro l’antiligua, così chiamava il burocratese Italo Calvino, è difficile da vincere. Il burocratese avanza. Conoscete qualcosa di meno burocratico della cioccolata? Bene, anche lei è stata colonizzata dall’antilingua. Il professore racconta di Gobino, il negozio di cioccolatini («il migliore che ci sia») vicino a casa sua a Torino: «Sembra di entrare in gioielleria, il negozio è di gran gusto, e mentre sei lì che aspetti e ammiri, e ti pare di essere in un altro mondo, vedi che, appiccicato al vetro del bancone, c’è scritto: “per chi vuol conoscere l’ingredientistica”. Ingredientistica?». Il professore è uscito di corsa dal negozio ma l’incubo non è finito. Perché, girato l’angolo, si è imbattuto in un distributore di sacchetti per “deiezioni canine”, poi in una “Scarpoteca”, quindi in una “Frullateria” e infine in un bar che reclamizzava: “Si effettuano panini”.
E la sindrome Occhial House come procede? Qui il peggioramento è netto. Ormai tutto si pronuncia all’inglese. Il catalogo, raccolto negli anni dal professore, è esilarante (e un po’ preoccupante). Troviamo steig per il francese stage, Thomas Men, per il tedesco Thomas Mann (e Walter Bengiamin, per Walter Benjamin, Bitoven per Beethoven), absaid per abside (di una chiesa), sain dai per sine die. Tutto ascoltato in tramissioni radiotelevisive e, purtroppo, anche in aule universitarie. Dice Beccaria: «Ogni manager o persona in carriera usa anglismi a gogò perché altrimenti potrebbe essere tacciato di scarsa professionalità. E anglismi snobistici e inutili si usano spesso coi sottoposti, fanno più professional». Il professor Luca Serianni sta lavorando con la società Dante Alighieri a un progetto ambizioso: un museo della lingua italiana. C’è un’ipotesi di massima che prevederebbe addirittura tre sedi (per le tre capitali che ha avuto l’Italia: Torino, Firenze e Roma). Il museo sarebbe la naturale conseguenza della grande mostra Dove il sì suona. Gli italiani e la loro lingua allestita a Firenze nel 2003. Nell’occasione fu pubblicato un librone-catalogo, La lingua nella storia d’Italia, a cura proprio di Serianni. La tesi della mostra e del volume? Questa: «L’italiano del Duemila è tuttora più simile a quello del Boccaccio (e cioè al dialetto toscano trecentesco) che non a un pidgin italo-inglese». E se l’italiano non è diventato un pidgin (cioè l’ibrido che nasce dalla contaminazione tra lingua internazionale dominante, lingua nazionale e dialetti locali), il merito della salvezza «è stato in qualche misura di Nicolò Carosio e di Mike Bongiorno, di Orietta Berti e di Liala». Calcio, tv, canzonette e romanzi rosa hanno reso possibile il passaggio del testimone linguistico nazionale dalle mani di Dante (e di Boccaccio e di Manzoni) alle nostre. Così è andata, senza falsi moralismi, assicura Serianni. Ma ora così non va più. Il professore lancia un allarme, oltre a quelli sul burocratese e sull’anglitaliano del collega Beccaria, che riguarda l’impoverimento del lessico: «Aggettivi come “faceto” o “inane” rischiano di essere ignoti a una parte consistentemente alta di giovani».
MEGLIO I GIORNALISTI CHE GLI SCRITTORI
E stavolta non ci salveranno più Carosio, Bongiorno, la Berti e Liala. «No, questa volta il problema è diverso. Allora, parlo degli anni Cinquanta e Sessanta, si trattava di conquistare un italiano di base, un italiano minimamente condiviso di fronte all’uso diffusissimo e spesso esclusivo del dialetto. Ora quell’italiano di base ce l’abbiamo». Capisco, professore, adesso il problema è che quell’italiano è un po’ anemico, carente lessicalmente. Ma in questi casi il rimedio classico non è quello di leggersi un buon romanzo nazionale? «Gli scrittori non sono più modelli linguistici. Ha presente l’incipit di Come Dio comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti: “Svegliati, svegliati, cazzo”. Gli scrittori non inseguono più un modello letterario, cercano di aderire al parlato». E quindi non abbiamo più modelli? «Secondo me i modelli ci sono ancora e io li consiglio spesso agli stranieri che vogliono migliorare il loro italiano». E cosa consiglia? «Di leggere i buoni giornalisti. Un fondo di Alberto Ronchey è perfetto in questo senso». Grazie professore, finalmente una buona notizia, finalmente una cosa in cui i giornalisti non sono colpevoli ma addirittura additati a modello. Recupero immediatamente in archivio un editoriale del professor Ronchey. È del 13 giugno 2008. «Prevedeva Leonardo Sciascia: “Andremo sempre più a fondo senza mai toccare il fondo”.
Ma forse, ora, si è toccato il fondo. Si può risalire? Per troppo tempo la politica italiana s’è dedicata a schermaglie di schieramento fra partiti e a contese ideologiche, trascurando i termini del generale dissesto. Tra i dati primari, oltre il debito pubblico e l’arretratezza delle infrastrutture, sarebbero da catalogare numerose questioni eluse finora, troppe. E chi se ne lamentava non era l’opposizione, ma la famosa voce del deserto. Voce che allora ha provato e oggi ancora prova stanchezza». Effettivamente una gran bella prosa, quella del professor Ronchey. Ma proprio leggendo questo suo editoriale mi torna in mente una vecchia convinzione. Non è l’italiano, come lingua, che sta male, nonostante gli sportelli impresenziati, i panini effettuati, i sain dai e gli Occhial House. A stare male è l’italiano come popolo. Ma questo lo sapete benissimo. Io avrei finito, dal punto di vista linguistico. I professori Beccaria e Serianni mi hanno tranquillizzato. La salute dell’italiano è accettabile. Ma in redazione sono invece apocalittici. Vogliono il grido di dolore, l’SOS, il risvolto inedito, il titolo da sparare. Io ci ho provato con la storia degli sms, delle mail, eccetera, che avrebbero rivoluzionato la lingua italiana. Ma i professori interpellati sono stati abbastanza pacifici sull’argomento. Hanno parlato di tachigrafia (bn = buonanotte, 10x = thanks, xiodo = periodo), ma non è una cosa grave. Insomma, nessuno scenario apocalittico. Quindi nessun titolo da scandalo per l’inchiesta.
Nessun codice rosso è scattato per salvare la lingua italiana. Avevo quasi rinunciato e stavo per arrendermi quando nella posta ho trovato l’edizione 2009 della storica Smemoranda. Non è mai stata solo un’agenda, questa premiata invenzione della ditta Gino e Michele & Co. È stata, sin dall’inizio, un piccolo rapporto Censis sui riti, i miti, i tic, i totem e i tabù delle nuovissime generazioni. Mi è bastato sfogliarla per capire che la mia inchiesta era lì. Era nelle vignette che ironizzano sul computerese, sul telefoninese, sull’smsese. Sul lessico elettronico. Prendete la vignetta di Francesco Natali che ha per protagonisti un figlio e una mamma. Figlio: «Mamma esco… Se mi cerchi mandami un sms, oppure loggati con Skype… il mio nick è parakul68, vado a postare un clip su Youtube… See you later!». Riflessione sconsolata della mamma: «Una volta si diceva solo: Mamma che palle!». Altra vignetta, questa volta di Migneco e Amio. Due ragazzi. Lui dice a lei: «Ieri ti ho cercata su Google». Lei: «E invece ero a casa di Gianna». Vignetta di Maramotti. Padre dà la buonanotte alla figlioletta che ha appena messo a letto (lei ha il computer poggiato sulle ginocchia): «Buonanotte… Se hai bisogno di un bicchier d’acqua mi trovi su www.cameradeigenitori.it!». Ma l’allarme generale lo lancia la Gialappa’s Band con una splendida (a suo modo geniale) lettera aperta al popolo degli sms. Eccola: «Amc di Smmrnd, ma sprtt amch d Smmrnd, the “msg 4 u” è: basta, non se ne può più! Ci avete sfinito con i vostri messaggini (sms, mms, msn…) fatti solo di consonanti: cmq per dire “comunque”, tt per dire “tutto” e xk per dire “perché”. Anzi: ci avt prpr frntmt i cgln!!! Che fine farà la nostra lingua? Non solo quella aulica di Dante e Manzoni, ma persino quella più prosaica e vernacolare di Totti e Di Pietro? Dobbiamo rassegnarci a tentare di decifrare comunicazioni più simili a codici fiscali che a frasi di senso compiuto?! Ebbene no: riprendiamoci la lingua, e quindi le vocali».
DALLA PARTE DELLE VOCALI
La difesa e l’elogio delle vocali è il cuore politico (ma sì!) della lettera aperta della Gialappa’s: «Perché le vocali (forse non ci avete mai fatto caso) sono calde, prorompenti, esprimono gli stati d’animo: sono le gioie e i dolori. Mentre le consonanti sono fredde, meccaniche, e capaci solo di esprimere pensiero, astrazioni». Con foga da comizio la Gialappa’s continua: «Le vocali sono tipiche dell’uomo (non è un caso che la parola uomo contenga 3 vocali e una sola consonante); mentre le consonanti sono tipiche del robot (3 consonanti e 2 vocali, e non sarà un caso nemmeno questo)». L’elogio delle vocali diventa l’elogio dei sentimenti: «Provate un po’ a pensare che suoni emettete, istintivamente, quando provate dolore (“ahia!”, “ohiohi!”, etc.), e quando vi divertite (“ahahahah!” e “wow!”, che si scrive così ma si pronuncia “uau!”); quando ce l’avete con qualcuno (“aòh!” se siete romani, “uhei!” se siete milanesi) e quando siete piacevolmente sorpresi (“oeuh!”, oppure “ahàa!”); per non parlare, poi, dei suoni che fate quando trombate (se all’acme del piacere emettete consonanti siete dei veri pervertiti; oppure avete bisogno di un buon logopedista…)». Negli anni Cinquanta e Sessanta l’italiano lo salvarono Carosio, Bongiorno, la Berti e Liala. Ora l’italiano (almeno dagli sms) lo sta salvando la Gialappa’s Band.
Antonio D'Orrico 03 settembre 2008
Qual è la situazione nella Spagna?
Pensate sia simile a quella italiana?
Credete che quanto descritto sopra sia positivo per la lingua?
Cercate degli errori fatti dai protagonisti nello spezzone del film qui sotto nel redigere la lettera.
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Domenica 5 ottobre, la nona edizione di Biodomenica 2008, stand in 50 città d'Italia
Il mercato bio non conosce crisi "Settore in espansione, prezzi più bassi"
Andrea Ferrante, presidente di Aiab: "Il bio conviene alle tasche e all'ambiente" di MARCO GRASSO
ROMA - Se ci fosse una scala cromatica per descrivere lo stato dell'economia, in questo momento si potrebbe sintetizzare così: ciò che non è nero è verde. Già, perché in questo periodo di crisi, c'è un settore che gode di ottima salute, almeno in Italia: quello dei prodotti biologici. Precipitano i consumi ma non quelli bio, che addirittura aumentano. Non solo. Secondo le associazioni di categoria, questi generi alimentari hanno resistito all'inflazione meglio dei concorrenti. Ma i risultati non sono solo economici. L'agricoltura alternativa a quella convenzionale, dicono i suoi sostenitori, non fa solo bene alle tasche ma anche all'amb
iente e aiuta a combattere i cambiamenti climatici. L'evento. Questi temi saranno centrali domenica 5 ottobre, in occasione della nona edizione della campagna nazionale Biodomenica 2008, organizzata dall'Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab), in collaborazione con Coldiretti e Legambiente, e la partnership di Repubblica.it. Per la nona volta, produttori, consumatori e associazioni ambientaliste, si incontreranno per fare il punto sul settore biologico: verranno allestiti stand in una cinquantina di piazze italiane, dove sarà possibile degustare e informarsi. Qui l'elenco completo degli appuntamenti.
Il successo economico. L'edizione di quest'anno è all'insegna dell'ottimismo. "A fronte di una diminuzione dei consumi, negli ultimi nove mesi c'è stato un aumento costante dei prodotti biologici, c he stimiamo dal 5 al 10% - afferma Andrea Ferrante, presidente dell'Aiab - In più, la forbice dei prezzi che separa prodotti convenzionali e biologici si è ridotta in maniera sensibile. Questi ultimi hanno resistito meglio all'inflazione, grazie alla minore dipendenza dal petrolio e all'avvicinamento tra produttori e consumatori, che permette di evitare gli aumenti dovuti alla distribuzione".
Il contributo alla lotta al global warming. Ma l'argomento al centro della campagna di questa edizione saranno i cambiamenti climatici. Secondo uno studio dell'Usda (il Dipartimento dell'agricoltura a mericano), un campo coltivato ad agricoltura biologica trattiene fino a sei volte la quantità di carbonio per ettaro, e permette di risparmiare quasi il 50% di energia rispetto ad una coltivazione con metodi convenzionali. Il bilancio energetico è migliore anche nei confronti di un appez zamento non lavorato ( 20%). Un'altra ricerca dell'Università di Vienna, sostiene che anche mangiare bio rid uce del 30% l'inquinamento.
Un settore di eccellenza. Con oltre un milione di ettari e più di 50mila aziende biologiche, l'Italia è il prim o Pae se produttore in Europa (dove sono italiane il 37% delle imprese) e il terzo al mondo dopo Austra lia e Argentina. Quanto a percentuale di superficie agricola coltivata, il 6,9%, il Belpaese ha i l primato assoluto. Un mercato in crescita, come dimostra il boo m di bioagriturismi e gruppi d'acquisto, rispettivamente 25% e 60% dal 2005 (dati Tuttobio 2008). Dati incoraggianti che spingono il presidente della Coldiretti Sergio Marini a chiedere l'introduzione di "un marchio biologico italiano". Insomma, il settore ha a cuore l'ecologia, ma parla sempre più il linguaggio pragmatico degli economisti. E anche in tempi di grossa crisi, lo fa con il sorriso sulla bocca.
(1 ottobre 2008)
Conosci la situazione dell'agricoltura biologica in Spagna?
Pensi che i cibi biologici possano risolvere la situazione attuale dell'agricoltura? In che modo?
In che modo pensi che possano incidere sull'economia del tuo paese?
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